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Scontro fra Titani: Mark Zuckerberg Vs il Fisco italiano
Storia di un’evasione fiscale per mancato versamento dell’IVA da parte del colosso statunitense
Il Caso
Recentissima è la notizia secondo la quale la Società Meta (controllante, tra le altre cose, di Facebook, Instagram e Whatsapp) è stata indagata dalla Procura di Milano per evasione fiscale per il mancato versamento di Iva (imposta sul valore aggiunto) per circa 870 milioni di euro, a seguito di un accertamento condotto dalla Procura Europea. All’attività della Procura di Milano si aggiunge quella dell’Agenzia delle Entrate, per il recupero delle maggiori imposte accertate.
Precisamente, l’evasione fiscale contestata riguarderebbe i periodi di imposta dal 2015 a 2020, durante i quali la Società di Mark Zuckerberg avrebbe omesso di versare l’Iva per le iscrizioni degli utenti sulle diverse piattaforme social. Le conclusioni assunte dalla Procura Europea prima, e dalla Procura di Milano poi, traggono origine da una “nuova” e più estensiva lettura della disciplina Iva e, in particolare, di quella afferente alla “permuta di beni differenti”, che merita approfondimento.
L’ambito applicativo dell’Iva Brevemente,
l’Iva è un’imposta sul consumo, proporzionale al maggior valore che un bene o un servizio acquisisce per l’effetto di ogni passaggio economico (valore aggiunto), a partire dalla fase di produzione fino a quella del consumo del bene o del servizio stesso.
Senza entrare nel merito di tutte le specifiche fattispecie previste dalle varie discipline di settore, di regola sono soggette ad Iva le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso nel territorio dello Stato nell'esercizio di imprese o nell'esercizio di arti e professioni e sulle importazioni da chiunque effettuate (così artt. 1, 2 e 3, D.P.R. 633/1972).
Per quanto l’imposta in parola gravi economicamente sul consumatore finale (nel senso che, come noto, l’imposta viene esposta in fattura ed addebitata all’acquirente unitamente al prezzo del bene o del servizio), il soggetto passivo dell’Iva è il venditore, ovvero il prestatore del servizio che emette la fattura: l’impresa o il professionista sono tenuti (salvo regimi particolari) a porre in essere le dichiarazioni periodiche Iva e versare all’Erario il relativo tributo.
Per quello che qui interessa, rilevano ai fini Iva non solo le operazioni il cui corrispettivo sia danaro, bensì anche le permute (art. 1522 c.c.), ossia quei rapporti in cui, a fronte della cessione di un bene o la realizzazione di un servizio, la controparte si obbliga al trasferimento della proprietà di un bene, o di altri diritti (cfr. art. 11 D.P.R. 633/1972).
L’omesso versamento IVA oltre a costituire un violazione degli obblighi tributari, può altresì configurare la fattispecie di reato di cui all’art.10 – ter, D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, a mente del quale “è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta”.
La tesi della Procura
Nel caso che ci occupa, la Società Meta non ha ritenuto imponibile ai fini Iva la registrazione dei propri utenti sulle proprie piattaforme, in quanto, l’operazione – di per sé – non comporta uno scambio tra la Società e l’utente, essendo un’operazione essenzialmente gratuita.
Secondo l’impianto accusatorio de quo, invece, la registrazione presso la piattaforma social avrebbe sotteso uno scambio – ancorché non esplicito – tra la Società emittente il servizio ed il consumatore che si iscrive al social network: a fronte dell’accesso alla piattaforma, l’utente darebbe in scambio i propri dati personali, potenzialmente oggetto di profilazione e cessione da parte della Società, da cui quindi ne trarrebbe un oggettivo profitto.
Per ogni registrazione, dunque, la Società di Mark Zuckerberg avrebbe dovuto dichiarare e versare l’Iva, che la Procura ha calcolato sulla base dei ricavi pubblicitari ottenuti dalla Società negli anni 2015 – 2020; dai dati diffusi dalla stampa, l’omesso versamento ammonterebbe alla sbalorditiva cifra di circa 870 milioni di euro.
Per quanto non specificato dagli organi di stampa e - quindi - ad oggi non conosciuto, il ragionamento della Procura sulla quantificazione dell’IVA dovuta dovrebbe fondarsi sull’art. 14 D.P.R. 633/1972 ossia sul “valore normale” della prestazione: quando in contratto non è definito il prezzo economico dell’operazione – ovvero quando il prezzo non è congruo – la base imponibile IVA si calcola sull'importo che “il cessionario o il committente, al medesimo stadio di commercializzazione di quello in cui avviene la cessione di beni o la prestazione di servizi, dovrebbe pagare, in condizioni di libera concorrenza, ad un cedente o prestatore indipendente per ottenere i beni o servizi in questione nel tempo e nel luogo di tale cessione o prestazione”. Detto in parole povere, nel caso di specie, l’aliquota Iva andrebbe applicata sul valore che i dati sensibili degli utenti avrebbero normalmente in un libero mercato.
Qualora detta determinazione non fosse possibile (come appare plausibile nel caso di specie), altro metodo di accertamento Iva applicabile è quello inerente ai costi di produzione: il valore normale del bene o del servizio è pari almeno ai costi di esercizio esposti in bilancio inerenti alla produzione di quel determinato bene o servizio.
Prime considerazioni sul caso.
L’analisi del caso, purtroppo, allo stato non può che essere superficiale, poiché ad oggi le uniche informazioni reperibili sono solo quelle trasmesse dalle diverse testate giornalistiche, che si limitano a riportare la notizia nei suoi tratti essenziali. Tuttavia, è possibile già trarre alcune considerazioni tecniche sulla vicenda, in attesa di avere dati più approfonditi.
Prima di tutto, se la tesi della procura della Agenzia delle Entrate fosse accolta dalla giurisprudenza, si avrebbe un novum in materia di Iva: troverebbe avvallo il ragionamento per cui ogni operazione in cui l’utente si trovi a fornire dati personali a fronte di un servizio gratuito, il prestatore del servizio sarebbe obbligato ad emettere fattura e riversare l’Iva sull’utente. Ciò ricadrebbe non solo su tutti i grandi prestatori di servizi digitali (Meta, Amazon, Google etc.), ma anche su tutti i privati con siti di e-commerce, riviste e giornali on-line, ovvero blog di varia natura, che prevedono la registrazione dell’utente e monetizzano attraverso la pubblicità. Per gli utenti, quindi, servizi prima gratuiti, diverrebbero sostanzialmente a pagamento.
Ad ogni modo, a parere di chi scrive, da quanto può emergere dalle informazioni rilasciate dalle agenzie di stampa, le tesi sostenuta dalla Procura e dal Fisco italiani appaiono alquanto forzate: da un lato appare improbabile configurare un rapporto di scambio contrattuale - in senso civilistico - tra la registrazione alla piattaforma e la cessione dei dati dell’utente, dall’altro la fattispecie deve essere letta anche alla luce Direttiva (UE) 2019/770 e del novellato Capo I-bis, del Titolo III del Codice del consumo, ove la commercializzazione dei dati personali è sì consentita, ma a condizioni specifiche, nonché tipizzata nel nostro ordinamento solo a partire dal 2021. Ciò posto, è difficile ritenere che in capo alla Società si possa configurare un profilo di colpevolezza.
Lo Studio Legale Internazionale Giambrone, fornisce assistenza, sia a carattere internazionale sia a carattere locale, in ambito fiscale e tributario. Per qualsiasi informazione si prega di contattare direttamente il nostro studio legale.
Avv. Salvatore Mistretta
Dipartimento di diritto tributario