Il contratto di leasing con clausola di "rischio cambio" al vaglio delle SS.UU.

Le SS.UU. della Cassazione con la recente sentenza 5657 del 23.2.2023 hanno colto l’occasione, trattando un contenzioso in merito ad una fattispecie concreta alquanto peculiare (l’apposizione di una clausola di “rischio cambio” ad un contratto di leasing), per affrontare con comprensibile attenzione uno dei temi più peculiari del nostro ordinamento: si fa riferimento al rapporto fra la libertà contrattuale e i limiti del potere del giudice di verifica della meritevolezza del risultato del contratto.

Il contratto posto in essere fra le parti nella fattispecie concreta aveva ad oggetto un banale contratto di leasing immobiliare.

Al contratto era tuttavia apposta – ed in ciò è da reperire la peculiarità del caso – la previsione che il canone periodico che l’utilizzatore avrebbe dovuto pagare non era indicato fra le parti in misura fissa, ma variabile ed agganciata al valore di cambio fra l’euro e il franco svizzero (cd. clausola di “rischio cambio” appunto). Sulla base della dichiarata previsione, la fluttuazione del tasso di cambio fra le due valute avrebbe inciso sull’importo dei canoni di locazione.

Il contratto era stato giudicato nullo in secondo grado (Corte d’Appello di Trieste) sulla base di più valutazioni, poi sconfessate dalle SS.UU.

In particolare, il Giudice d’Appello aveva ritenuto sinteticamente che la clausola di “rischio cambio” 1) era “astrusa e macchinosa” e “provocava uno squilibrio delle prestazioni”.

Accertava inoltre la Corte d’Appello che la clausola di “rischio cambio” aveva effetti sperequati fra le parti: in particolare era incontestato che la variazione del rapporto di cambio fra il franco svizzero e l’euro avrebbe comportato variazione nel saggio degli interessi dei canoni di leasing maggiori o minori a seconda che la variazione fosse stata a favore del concedente o dell’utilizzatore.

La Corte d’Appello, pertanto, aveva ritenuto che la clausola trasformasse il contratto di leasing in “una sorta di swap”, come tale “immeritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c.” perché volto a creare un assetto di interessi fra le parti “aleatorio, speculativo ed incoerente rispetto alle effettive necessità di un contratto di leasing”.

L’articolo 1322 c.c. del resto, permette che le parti concludano contratti “atipici” (ossia differenti dai tipi contrattuali previsti dalla legge), purchè l’accordo elaborato fra le parti sia “diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.”

Poste tali premesse, le SS.UU. hanno colto l’occasione per una ampia disamina, volta anche a definire i limiti del potere del Giudice nella valutazione delle clausole elaborate dalle parti in seno al contratto atipico.

In particolare, la Corte ammette e pone come presupposto del tutto condivisibile il dato di fatto che un contratto “non meritevole di tutela” ai sensi dell’art. 1322 c.c. non possa trovare tutela (e dunque applicazione) nel nostro ordinamento.

Pur tuttavia, le SS.UU. specificano che la valutazione di “meritevolezza” di un contratto (sicuramente demandata al Giudice) non vada affatto confusa con la valutazione di “convenienza” dello stesso contratto (il cui potere di valutazione esula dal compito del Giudice, ma rientra nella sfera di libertà negoziale delle parti).

Le SS.UU. infatti specificano che un contratto è immeritevole di tutela solo quando sia contrario alla coscienza civile, all’economia, al buon costume o all’ordine pubblico. Diversamente “(…) un contratto non può dirsi “immeritevole” sol perché poco conveniente per una delle parti. L’ordinamento garantisce il contraente il cui consenso sia stato stornato o pravaricato, non quello che, libero ed informato, abbia compiuto scelte contrattuali non pienamente satisfattive dei propri interessi economici (..)”.

Letto in altri termini, appare del tutto coerente con l’ordinamento il pensiero della Corte, che specifica come non esista nel nostro sistema un principio generale che imponga che il contratto “non conveniente” di per sé possa esser valutato dal Giudice come non valido o non vincolante (nell’ambito di un tentativo del Giudicante di rendersi provvido tutore della parte meno avveduta o accorta).

Giungendo al caso specifico, pertanto, le SS.UU. enunziano il principio fondamentale a mente del quale “il diritto dei contratti non è un egualitario letto di Procuste che imponga l’assoluta parità fra le parti quanto a condizioni, termini e vantaggi contrattuali”: in altri termini, nell’ambito della libertà negoziale, ciascuna parte è libera di valutare la convenienza o meno del contratto che sta per sottoscrivere e, se fa un cattivo affare, non può ex abrupto pretendere la tutela dell’ordinamento avverso uno squilibrio delle prestazioni contrattuali (fatti salvi, ovviamente, i casi estremi che nel diritto generale sono rappresentati dalle tutele espressamente previste dall’ordinamento, si pensi ad esempio ai presupposti dell’azione di rescissione o i casi – tassativamente previsti – in cui fra le parti vi sia accertatamente un tale squilibrio da imporre specifiche tutele – vd. i contratti fra professionisti e consumatori).

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