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Concorrenza sleale tra imprese e violazione delle norme pubblicistiche
Come noto, l’art. 2598 c.c. vieta i comportamenti di concorrenza sleale, prevedendo al numero 3) una clausola di tipo aperto e generale, nella misura in cui ivi si prevedono come atti di concorrenza sleale quegli atti mercè i quali l’imprenditore “(…) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda(…)”.
La norma, lasciando grandi spazi all’interprete nella definizione degli atti che possono integrare la concorrenza sleale, è da sempre oggetto di controversie in giurisprudenza.
Ai fini del presente articolo, è bene innanzitutto specificare che la norma non vieta la concorrenza in sé (la quale invece è un fenomeno virtuoso del mercato) ma, al contrario, la sola concorrenza “sleale”, con ciò individuandosi gli atti di concorrenza che, pur perseguendo lo scopo tutelato (l’acquisizione di “fette” di mercato), si sostanziano in comportamenti “non conformi ai principi della correttezza professionale” (quindi non viene vietato “lo scopo”, ma “il mezzo”).
L’imprenditore che, pertanto, vanti in giudizio la pretesa di esser tutelato da atti di concorrenza non professionale, ha l’onere di provare sia il comportamento concreto posto in essere, sia la sua non conformità alla correttezza professionale sia, infine, l’idoneità del comportamento a danneggiare l’azienda altrui.
Nella realtà giurisprudenziale, pertanto, nel corso dei decenni si sono individuati molteplici comportamenti di concorrenza sleale che sono stati ritenuti posti in violazione della clausola di cui all’articolo 2958, numero 3 (alcuni dei quali ovvi ed intuibili: dalla imitazione servile del prodotto del concorrente, agli atti di pubblica denigrazione o approvazione di pregi; in altri casi vi sono stati esempi ben più specifici: basti pensare alla pretestuosa o inesatta comunicazione e/o pubblicazione dell’esito di un procedimento giudiziario avverso il concorrente – vd. sul punto Tribunale Verona, 14 giugno 1997).
Nel caso da ultimo giunto all’attenzione della Corte Suprema, si è posto il quesito se possa integrare concorrenza sleale anche un atto non direttamente posto in danno del concorrente, ma comunque volto all’acquisizione di un vantaggio concorrenziale mediante la violazione di norme pubblicistiche (basti pensare alla normativa urbanistica, o quella di autorizzazione allo svolgimento di attività volte al pubblico, o alla normativa tributaria).
Sul punto, la Cassazione già in passato ha ritenuto che possa integrare un comportamento di concorrenza sleale anche la semplice violazione di una normativa di diritto pubblico, purchè questa comporti al contempo, oltre alla violazione della norma, anche un vantaggio concorrenziale. Ad esempio si è ritenuto che costituisce concorrenza sleale il comportamento dell’imprenditore, gestore di un impianto cinematografico, che triplichi la capienza del proprio locale in assenza di alcuna autorizzazione amministrativa, con ciò sottraendo abusivamente spettatori ai cinema della stessa zona (Cass. 8012/04).
Tale sentenza ha in passato dato origine ad un orientamento che ha ampliato il novero dei possibili comportamenti di concorrenza sleale, fino a che la Cassazione è nuovamente tornata sul punto con la pronunzia numero 9770/2018, con la quale ha differenziato, da un lato, le norme rivolte a porre dei limiti all’esercizio dell’attività imprenditoriale (la cui violazione, pertanto, è sicuramente atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598, numero 3) dalle norme che invece pongono dei costi alle imprese operanti sul mercato (vd. ad esempio la normativa tributaria o le prescrizioni igienico-sanitarie), la cui violazione non è ritenuta atto ex sé volto al conseguimento di alcun sleale vantaggio concorrenziale.
Sul punto, è da ultimo tornata la Corte Suprema con la recente pronunzia della sez. I, 8.5.2023, n. 12049.
In particolare, la Corte ha confermato il principio, ormai assodato, a mente del quale la sola violazione di norme pubblicistiche non implica necessariamente il compimento di un atto di concorrenza sleale (con ciò integralmente confermando il precedente già ricordato).
Pur tuttavia, la Corte specifica ulteriormente che la violazione di norme che impongono dei costi possa comunque comportare un “antecedente” di un comportamento di concorrenza sleale, precisando tuttavia che divenendo in tal caso la violazione della norma di diritto pubblico indirettamente la fonte di un illecito concorrenziale; deve essere data, in sostanza, dall'imprenditore che si duole della condotta del concorrente, dimostrazione non tanto della violazione di norme amministrative, quanto anche del compimento di atti di concorrenza potenzialmente lesivi dei propri diritti, mediante malizioso ed artificioso squilibrio delle condizioni di mercato.
Ovviamente, la definizione della Corte lascia aperta la stura a differenti vie interpretative, rimanendo da capire quali violazioni di norme pubblicistiche alterino effettivamente le condizioni di mercato: basti pensare all’imprenditore che, semplicemente, non paghi le tasse o non rispetti costose prescrizioni di sicurezza, in tal caso egli riesce, mercè la violazione della normativa vigente, a presentarsi sul mercato con risorse economiche precluse ai propri concorrenti, di eguali dimensioni ma rispettosi delle norme.
Silvio Motta
Partner
Carmelo Barreca
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