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L'azione di indebito arricchimento ex art. 2041 c.c. e la natura sussidiaria della relativa domanda
Fra le azioni attivabili in giudizio, l’azione di ingiustificato arricchimento ha da sempre sollevato dubbi di applicabilità che hanno sollevato un acceso dibattito, sia in sede giurisprudenziale che dottrinaria.
L’azione di ingiustificato arricchimento è un rimedio di carattere restitutorio, volto principalmente ad eliminare uno squilibrio che si sia determinato, in favore di un soggetto e a sfavore di altro, in assenza di una cd “giusta causa”.
Invero, l’ordinamento prevede delle ipotesi di rimedi cd. “tipici” a certe ipotesi di squilibrio: l’art. 1453 del codice civile prevede dei rimedi tipici ad un evento di squilibrio, costituito dalla ipotesi dell’inadempimento di alcuna delle parti ad un contratto a prestazioni corrispettive (appunto, alternativamente l’azione di esatto adempimento o la risoluzione del contratto).
In tal caso, il contraente in bonis può alternativamente decidere se pretendere in giudizio l’esatto adempimento della controparte o la risoluzione del contratto, fermo restando il diritto al risarcimento del danno subito.
Nella molteplicità delle fattispecie concrete, però, possono capitare ipotesi in cui l’impoverimento di una parte e il conseguente arricchimento dell’altra avvengano in casi non tassativamente previsti dall’ordinamento ed in cui non sussista una corrispondente azione contrattuale o da illecito ex art.2043 c.c.
In tali casi, il rimedio azionabile dal soggetto interessato è appunto quello previsto dall’art. 2041 c.c. , che prevede la possibilità del soggetto impoverito senza giusta causa di chiedere la condanna del soggetto corrispondentemente arricchito al versamento di un indennizzo. Tale azione di arricchimento tuttavia non è sempre attivabile ma, ai sensi dell’art. 2042 del codice civile, solo allorchè l’ordinamento giuridico non appresti alcun altro rimedio “per farsi indennizzare del pregiudizio subito”.
Tale principio (cd. della “sussidiarietà dell’azione di arricchimento”) ha una sua forte ratio, ma ha da sempre presentato difficoltà interpretative, che le SS.UU. della Corte di Cassazione hanno affrontato da ultimo con la recentissima sentenza numero 33954/2023, pubblicata lo scorso 5.12.2023.
La ratio della norma è evidente: il Legislatore mira ad evitare un ingiustificato incremento di litigiosità, alimentato dalla presenza di una sorta di domanda “di riserva”, da proporre ogni qual volta la domanda principale dovesse presentare elementi di criticità. Si vuole in buona sostanza evitare che qualora l’azione principale possa essere per qualsiasi motivo rigettata, la parte potrebbe essere tentata di chiedere in via subordinata che venga in ogni caso dichiarato l’ingiustificato arricchimento della controparte, con ciò facendo “rientrare dalla finestra ciò che sia uscito dalla porta”.
Il caso tipico è facilmente raffigurabile: l’attore che avanzi una pretesa ad un credito prescritto non può pretendere in via residuale che sia dichiarato l’indebito arricchimento della controparte. Tale principio di “sussidiarietà” è stato a lungo oggetto di contrastanti interpretazioni, che oscillavano dal costante rigetto dell’azione di arricchimento per carenza di tale requisito, a posizioni meno rigide.
Si è quindi giunti, per comporre il contrasto, alle SS.UU. le quali lo hanno risolto partendo da una petizione di principio, a mente della quale comunque l’esercizio dell’azione di arricchimento sia precluso nei casi in cui “(…) l’azione suscettibile di proposizione in via principale sia andata persa per un comportamento imputabile all’impoverito e, quindi, con riferimento ai casi di più frequente applicazione, per la prescrizione ovvero per la decadenza(…)”, e ciò in quanto “(…)l'azione di arricchimento non possa far rivivere il diritto prescritto, che è estinto e resta tale (…)”.
L’impoverito che, pertanto, per propria colpa abbia perso le proprie difese non può pretendere di ottenere tutela residuale con l’azione di arricchimento.
Mitigando però le posizioni estreme della giurisprudenza (anche non troppo risalente),le SS.UU. hanno però differenziato i casi esposti di inammissibilità della domanda residuale per “colpa” dell’impoverito, dai casi in cui i presupposti fondanti la domanda principale siano ab origine carenti del tutto: si pensi al caso in cui un soggetto chieda in via principale l’adempimento di una obbligazione derivante da un contratto nullo e, in via residuale, chieda indennizzo per l’arricchimento goduto dalla controparte in conseguenza del proprio spontaneo adempimento allo stesso contratto. Tipico esempio l’azione dell’appaltatore contro la P.A. per opere eseguite in virtù di un contratto nullo per vizio di forma scritta.
In tali casi, la pretesa contrattuale espressa in via principale è fondata su un titolo del tutto inesistente e, conseguentemente, giustamente tale domanda viene rigettata. Pur tuttavia, ritengono le SS.UU. che proprio l’accertamento della inesistenza del titolo della domanda principale giustifichi e renda ammissibile la proponibilità del rimedio sussidiario, costituito dall’azione di indebito arricchimento.
Silvio Motta
Partner
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