Criptovalute e profili penali: le prospettive in tema di digital forensics

L’ecosistema finanziario in cui si inseriscono le criptovalute e le nuove tecnologie su cui queste si basano, costituisce terreno fertile per il proliferare di fenomeni criminogeni, legati alla commissione di reati facilitati dall’uso illecito e dalla scarsa regolamentazione degli aspetti strutturali del fenomeno in divenire.


Sicché, ai vantaggi offerti dal mercato Forex e dalle criptovalute si affiancano i rischi in cui può incorrere l’investitore al dettaglio, poco esperto in materia, nel confrontarsi con un settore sempre più accessibile grazie ai broker e alle piattaforme di trading.


A tal proposito, è possibile distinguere due tipi di condotte di cybercrime legate al tema: 

  • quelle nelle quali le criptovalute costituiscono un elemento accidentale della fattispecie di reati comuni commessi online, quali truffe, estorsioni, compravendita di beni o servizi illegali, essendo, dunque, la contropartita dell’attività illecita posta in essere;
  • quelle nelle quali le criptovalute non rappresentano una mera modalità alternativa di conseguimento del provento del reato, bensì l’oggetto materiale del reato. Si pensi al furto di criptovalute, al cyberlaundering o al finanziamento di organizzazioni criminali.

In questa sede, ci soffermeremo sulla prima tipologia ed in particolare sulle truffe più diffuse.


Difatti, è la struttura stessa del sistema delle criptovalute (lo pseudoanonimato; la possibilità di usufruire di servizi di mixing e di effettuare transazioni rapide ed irreversibili a livello transnazionale; la scarna regolamentazione) a renderlo suscettibile di essere strumentalizzato per finalità illecite, attraverso modalità analoghe a quelle poste in essere, nell’ambito del tradizionale trading online, da presunti broker che, privi di autorizzazioni di legge, ingannano gli investitori.


Tralasciando i tentativi di phishing, gli schemi Ponzi e la diffusione di ransomware, frequenti sono le truffe attuate mediante l’utilizzo di strumenti finanziari. In particolare, queste seguono pedissequamente la stessa falsariga comune: si viene contattati telefonicamente, via e-mail, o attraverso un qualsiasi social network, da sedicenti broker o promotori finanziari che, sponsorizzando una piattaforma di exchange di criptovalute, promettono grandi guadagni a fronte di un piccolo esborso. Una volta carpita la fiducia dell’investitore, grazie ad un iniziale incremento del capitale investito, questo verrà incitato ad investire sempre di più. A questo punto, viene negato il recupero delle somme investite, ormai trasferite ad un terzo wallet, e, contemporaneamente, i soggetti intermediari che offrivano l’asserito servizio, diventano irreperibili, scomparendo insieme al denaro. 


Se le dinamiche sopra esposte non sono difformi da quelle delle truffe attinenti al trading tradizionale, in materia di criptovalute si pone il problema dell’identificazione del soggetto proprietario del wallet in cui confluiscono le somme estorte, mediante artifici e raggiri, dai truffatori.
Per ovvie ragioni, tuttavia, risulta necessario effettuare un breve excursus sull’architettura del settore delle criptovalute. Queste si basano sull’utilizzo della Blockchain, species del genus DLT, “Distributed Ledger Technology”, una tecnologia che consente la registrazione e la conservazione di dati attraverso archivi multipli (ledger), ognuno dei quali contiene contemporaneamente gli stessi dati che sono conservati e controllati da una rete di computer (nodi). In altri termini, un registro distribuito, decentralizzato e, tendenzialmente, immutabile, all’interno del quale sono riportate tutte le transazioni raggruppate in una catena di blocchi collegati fra loro in successione cronologica. In questi termini, le transazioni, garantite attraverso un sistema crittografico, confluiscono all’interno di portafogli digitali, i wallet, identificati attraverso una stringa alfanumerica (l’equivalente di un IBAN bancario).


La pseudoanonimità delle transazioni non determina, tuttavia, l’impossibilità di rintracciare il flusso di denaro all’interno del sistema.
Una soluzione al problema potrebbe concretizzarsi attraverso il ricorso, in ambito processuale, a tecniche di indagine caratterizzate dal contenuto tecnologico ed all’utilizzo di prove digitali. È questa una delle applicazioni della c.d. digital forensics, quella scienza forense che si occupa del trattamento di dati digitali finalizzato alla individuazione di prove informatiche utili alle attività investigative di specie. 


Invero, attraverso la sua applicazione al mondo delle criptovalute, sono state aperte nuove frontiere in tema di mezzi di ricerca della prova, con notevoli risultati ottenuti nell’ambito di indagini sulla blockchain.


In particolare, oltre alle operazioni di indagine svolte su indirizzi IP, diverse sono le tecniche finalizzate all’associazioni di transazioni di criptovalute e all’identificazione di utenti, tra cui:

  • labeling e/o deanomization, intese quali attività di ricerca che consentono di risalire all’identità dei possessori degli indirizzi bitcoin, ad ognuno dei quali viene associata una pagina web dalla quale è possibile individuare riferimenti e-mail, nickname e pseudonimo;
  • clustering, intesa quale attività di ricerca che consente di individuare gli address riconducibili ad un singolo soggetto, mediante il raggruppamento di tutti gli indirizzi bitcoin ad essi riconducibili;
  • mixnet recognition, intesa quale attività di ricerca che consente di riconoscere eventuali attività di mixing (operazioni volte a mescolare più input di transazioni e indirizzarle verso più transazioni di output, al fine di ostacolare l’individuazione dell’originario indirizzo mittente e destinatario).

Alla luce di quanto detto, la strumentalizzazione delle criptovalute per possibili applicazioni delittuose, con specifico riferimento ai reati contro il patrimonio e di carattere finanziario, e il solco creatosi tra tecnologia e disciplina giuridica accresce, da un lato, l’esigenza di una regolamentazione omogenea delle criptovalute – sulla scia tracciata dalle direttive europee in tema di riciclaggio e finanziamento del terrorismo –  a tutela del mercato e dei consumatori; dall’altro, l’urgenza che le autorità inquirenti si dotino delle competenze e degli strumenti tecnici necessari al fine di poter condurre indagini efficaci.

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